In principio furono otto tappe, intervallate da più giorni di riposo. E la classifica generale non teneva conto dei tempi di percorrenza, ma dei punteggi ottenuti in base all’ordine d’arrivo delle tappe. Non esisteva nemmeno la maglia rosa, simbolo per eccellenza del Giro d’Italia. Venne introdotta solo nel 1931 per distinguere il migliore tra la massa stanca di uomini al pedale.

Il 13 maggio 1909 partiva il primo Giro d’Italia della storia. Da Milano, la città in cui La Gazzetta dello Sport ebbe l’intuizione di idearlo, si arrivò a Bologna per il primo traguardo. Quasi 400 km che partirono da Piazzale Loreto nel bel mezzo della notte. La prima di tante fatiche che atleti di più generazioni hanno affrontato per vestire di rosa, un colore insolito e per questo adatto a contraddistinguere uno status. Un risultato di prestigio.
Oggi, 110 anni e 102 edizioni dopo, il Giro d’Italia resta uno degli appuntamenti sportivi più attesi e visti, in Italia e nel mondo. Ma è innegabile come il rapporto di questa corsa con il nostro Paese affondi le sue radici in un qualcosa di molto profondo, oltre il semplice fascino di una manifestazione sportiva che può passare lungo la via di casa e sfiorare il proprio portone.
Il ciclismo ha appena attraversato una fase molto delicata della propria storia, forse non ancora conclusa. I ripetuti scandali di doping hanno abbattuto o incrinato miti già issati nelle menti degli appassionati: Armstrong, Pantani, Cipollini, Contador, Basso, Ullrich. Vincitori di Giri e Tour, medaglie olimpiche e mondiali. Per lungo tempo è sembrato che nessun corridore competitivo, ognuno con la sua differente storia personale, potesse uscire pulito da un vortice che ha minato la credibilità del ciclismo, colpendo l’entusiasmo dei suoi seguaci. E allontanando del tutto le nuove generazioni, già poco propense ad appassionarsi a uno sport poco frenetico, se non nei pressi dell’arrivo. Nell’epoca dello zapping televisivo compulsivo, dei palinsesti fai da te su Netflix, tenere gli occhi per ore su una corsa per lunghi ratti monotona è quasi impossibile.

Eppure, ogni anno, copertura mediatica e affetto delle persone per strada restituiscono ancora la fotografia fedele di un rapporto, tra il Giro e l’Italia, intriso di storia. Di simboli e significati che travalicano il solo lato sportivo. E che l’hanno reso un’icona popolare e mai elitaria, sebbene tante celebri penne si siano divertite a raccontarlo.
L’ITALIA
Un Paese eterogeneo come territorio. Mari, pianure, colline, montagne. E, nel 1909, ancora estraneo a sé stesso. L’Italia, come Stato, non aveva ancora 50 anni. Il processo risorgimentale era una memoria fresca per molti. Gli italiani, come disse qualcuno, erano ancora da fare. Al nord non si conosceva il sud, al sud erano ignari di cosa ci fosse al nord. In pochi avevano la possibilità di spostarsi oltre la propria città. Si parlavano lingue diverse di regione in regione. L’idea che ci fosse una corsa che percorresse l’intera penisola era affascinante, perché consentiva al pubblico di conoscere zone inesplorate. Le radiocronache in diretta e i resoconti sui giornali del giorno dopo offrivano non solo risultati, ma spaccati di cosa accadesse nelle strade, nelle città e nei luoghi attraversati dai ciclisti. Il percorso della gara era un filo rosso che univa un Paese ancora diviso. Perché tutti assistevano a uno spettacolo comune, prendendo coscienza di cosa fosse l’Italia. E di quali fossero i suoi eroi.
LA GUIDA DEL GIRO
Non è un caso che, dal secondo dopoguerra in avanti, venne chiamata “Il Garibaldi”. L’eroe dell’unità che era salpato dalla Liguria per arrivare in Sicilia, ferito in Calabria e risalito fino in Campania. Che aveva combattuto anche in Veneto e nel Lazio per unire tante parti in una sola entità. Il Giro, come l’eroe dei due mondi, si proponeva come collante di realtà frammentate. Nel 1946, primo giro repubblicano, si passò per la prima volta a Trieste. Bruno Roghi, giornalista della Gazzetta dello Sport, descrisse così l’evento:
“Ogni casa, ogni palazzo era uno sfarfallio di bandiere e di drappi tricolori esposti alle finestre, agitati freneticamente. La folla si lanciava con le braccia protese e con le mani aperte verso l’esigua carovana in cammino, urlava il suo amore infinito, incontenibile e di questo amore piangeva nell’empito di una commozione senza freno. Molte donne si erano inginocchiate per terra avendo ai lati i loro figlioli. La strada vastissima è un nereggiare di folla che la percorre gridando Italia, Italia, Italia”.

LA BICICLETTA E I GREGARI
Prima di essere un vezzo per gli ecologisti, una chicca della mobilità sharing e sostenibile, la bicicletta era un sinonimo di fatica. L’idea della pedalata come di uno sforzo continuo, progressivo. Non una scelta facoltativa, ma un mezzo obbligato per muoversi, spostarsi per lavoro. La bicicletta era lo strumento di lavoro dei fattorini, dei garzoni. Era il solo che potessero permettersi i muratori e gli operai per andare nei cantieri e nelle fabbriche. Vedere l’atleta che soffriva in bicicletta era come osservare la riproduzione delle proprie fatiche quotidiane. La conseguenza era la facile immedesimazione, il senso di distacco che veniva meno. La gioia e il sollievo dei ciclisti al traguardo rappresentavano il riscatto degli umili, degli ultimi. Luigi Ganna, che vinse il Giro del 1909, era un muratore. E la fatica dei ciclisti, nonché delle persone comuni, trovava una dignità ancora più alta della vittoria nella figura dei gregari. Coloro che si sacrificavano per il trionfo del capitano, quelli che accettavano consapevolmente di lasciare ad altri la vetrina e la passerella d’onore. Il sacrificio più grande: la rinuncia all’obiettivo personale per mettersi al servizio di logiche di squadre, di azienda.
LE PENNE SPECIALI
Vasco Pratolini, Alfonso Gatto, Achille Campanile. Anna Ortese mimetizzata per sfuggire alla regola che impediva ancora alle donne, nel 1955, di seguire la carovana dei ciclisti. Scrittori e giornalisti di pregio inviati dai loro quotidiani al seguito del Giro d’Italia per descriverne il colore e il folklore che lo circondava. Per non soffermarsi sull’arida cronaca dei distacchi, ma sugli sguardi e sulle espressioni dei corridori in gara, per studiare quel contorno di persone festanti da mettere nero su bianco. Anche Dino Buzzati, nel 1949, si cimentò nella parte di inviato speciale per il Corriere della Sera. Nel Giro che consacrò la stella di Coppi a scapito di quella cadente di Bartali, si lanciò in un ardito paragone dei due con il duello omerico tra Ettore e Achille nella tappa del Pinerolo vinta da Coppi con 12 minuti di vantaggio sugli inseguitori. Una delle tante gemme colte qua e là e riassunte nella domanda, con auto-risposta finale, in uno dei suoi ultimi pezzi:
“Perché seguire una corsa stramba e assurda come il Giro d’Italia? Perché è una delle ultime città della fantasia, un caposaldo del romanticismo, assediato dalle squallide forze del progresso, e che rifiuta di arrendersi”.
Le forze del progresso hanno portato l’assedio in tutto il suo squallore, senza però che il Giro e il ciclismo si siano arresi. Buzzati lo aveva previsto ma, altrettanto profeticamente, predisse la sua resistenza:
“No, non mollare, bicicletta. A costo di apparire ridicola, salpa ancora, in un fresco mattino di maggio, via per le antiche strade dell’Italia. Noi viaggeremo per lo più in un treno razzo, allora la forza atomica ci risparmierà le minime fatiche, saremo potentissimi e civili. Tu non badarci, bicicletta. Vola tu, con le tue piccole energie, per monti e valli, suda, fatica e soffri. Dalla sperduta baita scenderà ancora il taglialegna a gridarti evviva, i pescatori saliranno dalla spiaggia, i contabili abbonderanno i libri mastri, il fabbro lascerà spegnere il fuoco per venire a farti festa, i poeti, i sognatori, le creature umili e buone ancora si assieperanno ai bordi delle strade, dimenticando per merito tuo miserie e stenti. E le ragazze ti copriran di fiori”.