Una sotto-storia come paradigma di una storia più ampia. Un espediente spesso utilizzato quando il rischio di perdersi in trame intricate è alto.
L’11 marzo di 29 anni fa, 1990, il Cile registrò un passo importante nel suo ritorno a una condizione di Stato liberale: Augusto Pinochet, dittatore ininterrotto dal 1973, anno del colpo di Stato militare ai danni del socialista Salvador Allende, fu obbligato a lasciare il ruolo da Presidente a Patricio Aylwin. Una mossa non inaspettata, ma conseguenza diretta di due passaggi fondamentali: la sconfitta di Pinochet in un referendum del 1988, da lui stesso indetto per avere un nuovo mandato presidenziale nella convinzione di una vittoria certa, e le elezioni del dicembre 1989, organizzate per pressioni interne e internazionali. Segnali che attestarono il desiderio comune di un passaggio di consegne.
Per quanto simbolico ed evocativo, nemmeno un cambiamento politico simile ha potuto inficiare da subito una radicata struttura repressiva. A 350 km da Santiago, capitale e sede governativa, un piccolo villaggio dell’orrore ha continuato a mantenersi in vita. Sebbene fosse strettamente legato al regime di Pinochet, a Colonia Dignidad, oggi nota come Villa Baviera, non cambiò nulla. Paul Schafer, ex membro della gioventù hitleriana e caporale della Wehrmacht, continuò a perpetrare la sua autorità attraverso abusi su minori, dure pene corporali, rigidità e controllo. Parole e attività chiave di un sistema oppressivo nato nel 1961, anno di fondazione della colonia da parte di un gruppo di immigrati tedeschi e nostalgici nazisti. Alla loro guida proprio Schafer, allontanatosi dalla Germania con un’accusa di pedofilia pendente sul proprio capo. A fargli compagnia, Josef Mengele, conclamato sperimentatore di torture mediche nei campi di sterminio della Seconda guerra mondiale.
Il dramma di questo minuscolo lager ricreato in salsa sudamericana è stato riportato alla luce nel 2016, anno di uscita del film “Colonia”, interpretato da Emma Watson e diretto dal regista tedesco Florian Gallerberger, Premio Oscar nel 2001 per il miglior cortometraggio. Ci sono però voluti 110 minuti per tentare di scavare, almeno in superficie, i misteri di una storia poco nota ai più. Ma cos’era la Colonia Dignidad? Una piccola comunità ruotante attorno a un ospedale e a una scuola, messi a disposizione anche della comunità nativa locale, e all’attività agricola e all’ estrazione mineraria come motori economici e di accumulamento di ricchezze per i gerarchi fondatori. Sfruttamento del lavoro nella falsa ottica di una condivisione comunitaria di quanto lavorato collettivamente.
Una setta che chiudeva ogni contatto dei suoi adepti con il mondo esterno. L’unica possibilità di vita contemplata era quella impartita con severità e senza alternative. Separazione netta tra generi e conseguente proibizione dei rapporti sessuali. Sperimentazione di psicofarmaci, con cui placare i desideri e indurre all’assuefazione, e di armi chimiche per conto della Dina, la polizia speciale del regime di Pinochet. Messa a punto di sofisticati sistemi di sorveglianza per monitorare eventuali dissidenze o tentativi di fuga. Punizioni severe con l’elettroshock, altri sistemi corporali o con la privazione di acqua e cibo. Nei confronti degli oppositori del regime, lì spediti senza pietà, o dei pochi che tentavano di sfuggire a quell’inferno. A Colonia Dignidad i casi ribelli erano saltuari e isolati, mai frutto di una sommossa comune. Coloro che vi abitavano erano spinti a credere che quello fosse il migliore dei mondi possibili, se non l’unico ammissibile. Al di fuori di esso, la perdizione. All’interno della comunità crescevano sia bambini tedeschi che cileni, mandati da genitori che vedevano nell’installazione di un ospedale e di una scuola dei baluardi di civiltà in un luogo altrimenti dimenticato. Bambini che, crescendo tra distorti dogmi religiosi, dedizione al lavoro contadino e visite notturne nella camera di Schafer, l’unico che si concedeva il piacere di soddisfare le sue pulsioni malsane, faticavano a elaborare l’esistenza di un mondo diverso. In pochi ebbero il coraggio di spingersi oltre il filo spinato che delimitava i 137 chilometri quadrati della colonia. Nemmeno il ricongiungimento familiare era concesso. Sacrifici sopportati da padri e madri in nome di una falsa illusione di progresso.

Laceranti sono le testimonianze di quanti hanno vissuto quell’orrore e hanno avuto il coraggio di ricordarlo ed esporlo: in un’intervista di qualche anno fa a Il Venerdì, una tedesca ultracinquantenne, Erika Tymm, ha confessato di aver scoperto solo a 44 anni come avrebbe potuto concepire figli. Troppo tardi, e forse inutile, dal momento che suo marito, cresciuto anche lui in colonia, era stato reso sterile dalle molteplici sedute di elettroshock ai testicoli. Franz Baar si è invece autodefinito “porcellino d’India” per le sperimentazioni molteplici sul suo corpo. Fu uno dei pochi a comprendere la gravità di quanto vissuto e a volerne scappare il prima possibile. La sua testimonianza, e altre più numerose tra gli anni Ottanta e Novanta, iniziarono a far luce su Colonia Dignidad, spingendo Amnesty International a farsi portatrice delle istanze crescenti e iniziando a creare pressione su Schafer. Scappò in Argentina nel 1996, prima di essere arrestato, estradato in Cile e condannato a oltre 30 anni di carcere, dove morì nel 2010. I crimini della Colonia vennero scoperchiati e altri addetti vennero condannati. Non c’è mai stato però alcun risarcimento per le vittime.
Pezzi mancanti di puzzle di giustizia incompleti. Il regime di Pinochet terminò nel 1990. Ma la sua caduta non bastò a intaccare il potere di Schafer nel suo piccolo regno: protezioni nelle alte sfere gli consentirono di trascinarlo per ulteriori sei anni. D’altronde lo stesso Pinochet, dopo la destituzione, rimase comandante dell’esercito fino al 1998 e poi senatore a vita. Soltanto per azione del governo spagnolo ci fu l’arresto e l’inizio di una travagliata attività processuale ai suoi danni. Per quanto alcuni eventi possano apparire iconici, è il lavorio che si nasconde dietro a decretare la consistenza dei cambiamenti. Un problema che questa piccola storia offre da più punti di vista: da quello della comunità nazista, che ebbe modo di potersi trasferire in Cile e realizzare un’utopia sognata fino a vent’anni prima, a quello della stessa Colonia Dignidad, rimasta in piedi anche in un contesto mutato e di apparente avversione.

29 anni fa il Cile fece un passo importante come Paese, ma tante persone hanno continuato a pagare lo scotto di dinamiche immutabili, più difficili da scardinare.
Quand’è che si può davvero decretare un cambiamento radicale, urlare alla vittoria e al ripristino di una giustizia unanimemente inclusiva? Una svolta politica è sufficiente? O si deve nutrire l’ambizione di eliminare le strutture, sovrastrutture e gerarchie che hanno determinato un contesto? Quante Colonie Dignidad bisogna sopportare per affermare che basti un’elezione a invertire un flusso radicato? Di certo, è un piccolo passo verso la ricostruzione di una società migliore, che passa anche dalla curiosità della riscoperta e dal coraggio della testimonianza.