“Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia”.
L’essenza racchiusa nell’elementarità di questa frase di Marco Pantani fa brillare gli occhi. Perché riassume un concetto spesso trascurato nello sport, la fatica. Forse anche il dolore. Soprattutto se riferito a campioni di cui siamo abituati a celebrare soltanto la magnificenza delle vittorie e la tragicità delle sconfitte.
Pedalare più veloce per arrivare il prima possibile sotto il traguardo, il punto in cui tutti gli sforzi si esauriscono. Quasi meccanicamente, per sfinimento. Non deve essere semplice affrontare una serie di tornanti, quando la monotonia del percorso e l’incertezza dei chilometri restanti ti pongono solo contro te stesso. I ciclisti non hanno mai modo di alzare un attimo la testa, girarla su un lato e godersi il panorama. Sono sempre con lo sguardo chino, non lo sollevano mai quando pedalano a ritmi cadenzati, forse perché temono che vedere la strada ancora mancante li getti nello sconforto. Gli occhi guardano in avanti solo quando profondono lo sforzo cruciale, il più decisivo ai fini dell’arrivo. Alzandosi dal sellino e accelerando il ritmo delle pedalate, nutrono la sensazione che quella sia la sperata ultima fatica. Ad attenderli il riposo e la fine di un tormento che non sempre la soddisfazione per la vittoria è in grado di lenire.
Il Pantani che rimontava sulla salita dell’Oropa nel 1999 dopo la rottura improvvisa della catena, pochi giorni prima della squalifica per doping, possiamo esserlo tutti. Quando siamo sfiniti durante il calcetto ma tentiamo un ultimo scatto per cercare di vincere, quando sul finale della corsetta della domenica per smaltire la settimana concludiamo con uno sprint che ci faccia sentire a posto con la coscienza e ci induca a dire “basta, non ce la faccio più”.
Smettiamo però di poter essere Pantani quando soppesiamo le conseguenze dei nostri sforzi. E ne valutiamo le evoluzioni. Anche dopo gli arrivi più trionfali, il volto di Pantani mostrava tutti i segni della fatica. Spesso volgeva gli occhi chiusi vero l’alto, con le braccia allargate e l’espressione stravolta più che soddisfatta. Rivedendo le foto oggi, la gratitudine che traspare sembra più essere il frutto del sollievo per uno strazio finito che per la gioia dell’obiettivo centrato. Forse perché, quando Pantani è diventato Pantani, alla fatica della corsa si è affiancato il dovere della vittoria.
Il passaggio dal momento in cui, nella percezione del tifo, non sei più predisposto, ma costretto a vincere, non è facilmente digeribile da ogni sportivo. All’agonia fisica si somma l’agonia mentale. La vittoria non come la migliore tra le possibilità, ma come missione obbligatoria. Al di là delle nubi addensate negli ultimi anni sulla sua squalifica e sulla sua morte, si può purtroppo dire che Pantani non sia riuscito a lasciarsi alle spalle la salita più dura. Quella del riscatto, del superamento delle proprie debolezze, della sopportazione del peso delle aspettative. Nella notte di 15 anni fa, in quell’albergo di Rimini, gli sarà passato in mente che, in fondo, tutta la vita fosse diventata un’intera agonia?
Magari anche per questo, soprattutto per questo, rileggendo quella sua frase con il senno del poi, gli occhi ci brillano molto.