Giulio Andreotti è stato il politico più iconico e rappresentativo della cosiddetta Prima Repubblica. La sua presenza nelle varie legislature, iniziata nel 1947, IV governo De Gasperi, suo primo e unico mentore, si è interrotta solo con la morte del 6 maggio 2013. Sopravvissuto, a differenza del suo partito storico, la Democrazia Cristiana, alla bufera Tangentopoli e a una nuova fase politica, non ha rivestito un ruolo di primo piano negli anni della polarizzazione berlusconiana, salvo una vana candidatura per la presidenza del Senato avanzata dal centrodestra nel 2006. Considerato già un’entità preistorica, un monumento a un passato incrollabile, ma impossibilitato a recitare ancora da protagonista.
Un passato interpretabile in più modi. Prediligere la visione affascinata dell’uomo in grado di essere sempre al centro dell’azione politica, di veleggiare con scioltezza sulla cresta delle onde di crisi, impasse governative e mutamenti sociali? Oppure optare per la condanna della figura compromessa da indagini, processi e verdetti? Sopra ogni cosa, la prescrizione per il reato di associazione a delinquere e associazione mafiosa per i fatti antecedenti il 1980? Aspirare alla completezza di un ritratto di Andreotti parrebbe un atto di presunzione, soprattutto da parte di chi non ha vissuto in prima persona la sua piena attività.
Nel 2008 il duo Paolo Sorrentino-Toni Servillo intraprese l’arduo tentativo di offrire uno spaccato della sua figura nel film “Il Divo”, titolo coniato da uno dei tanti soprannomi affibbiatigli in vita. Un’opera densa di allusioni, che non nasconde il proprio giudizio e il proprio punto di vista nei confronti degli aspetti più scabrosi dell’uomo politico, tanto da spingere il diretto interessato a definirla una “mascalzonata”. Eppure, tra un cenno ai rapporti con i boss di Cosa Nostra e un altro all’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ci sono frasi e scene che possono suggerirci qualcosa sulla percezione che si ha di Andreotti oltre i fatti reali e supposti. Di un pensiero e di un’anima considerati spesso imperturbabili.
E l’imperturbabilità non è forse il paradigma di questa scena che vede Andreotti nel rapporto con la moglie Livia, fedele compagna di vita? La comunicazione dell’avviso di garanzia per associazione mafiosa e la satira televisiva sono vissuti con contegno da entrambi. Le battute di un monologo di Beppe Grillo strappano addirittura al Divo un timido sorriso divertito. Sulle note di Renato Zero però, i dubbi iniziano a insinuarsi nella testa della moglie: quella ferrea conoscenza della verità rivendicata all’inizio è autentica? Il marito può essersi nascosto anche a lei per tutto quel tempo? Forse. Probabilmente. L’idea di una necessità di fondo che travalichi anche il rapporto più sincero e leale, rappresentato dalle due mani che non smettono di confortarsi.
Nel privato Andreotti resta impassibile così come nel pubblico. La mancata elezione a presidente della Repubblica nel 1992, coronamento di un percorso politico, viene accolta con apparente distacco. Il ritegno viene sottolineato anche da un deputato avversario, suo ex alleato. Non c’è mai lo spazio e il modo di lasciar trasparire sensazioni e stati d’animo. La vulnerabilità è neutralizzata prima di una sua effettiva comparsa.
La celebre massima di Montanelli, “De Gasperi in chiesa parlava con Dio, Andreotti col prete”, è qui inserita in un dialogo mattutino tra il protagonista e un parroco di fiducia. “I preti votano, non Dio” è la sua candida ammissione. Più di una radicata fede e di un urgente bisogno di spiritualità, svetta il pragmatismo connaturato alla politica. Una necessità non solo sopra la trasparenza coniugale, ma anche sull’avvertito bisogno di rispondere a Dio delle proprie azioni.
Andreotti indifferente al clamore attorno a lui. Andreotti che ammette la propria solitudine. Andreotti dipinto nella sua solitudine. In queste tre scene si mescolano figure fugaci, che si beano della presenza del Divo senza riscuotere più di un rapido saluto di cortesia, e di sodali che lo hanno circondato a lungo, ma che finiranno anche loro con l’essere allontanati. Esemplare il caso della segretaria, discreta e ligia al dovere, disposta a non sentire ciò che non si dovrebbe, ma accantonata quando se ne presentò l’esigenza. Nel progetto di vita di Andreotti, nessuno è destinato a occupare il proscenio in eterno accanto a lui. L’insostituibilità non è prevista. La solitudine è forse una condizione essenziale per chi ha il fardello del potere?
Siamo quindi sicuri che quest’ultimo logori solo chi non ce l’abbia?