122 anni fa: nasce Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore de “Il Gattopardo”

La fertilità è una caratteristica intrinseca della Sicilia. Agrumi, olive, vitigni. Ma anche paesaggi, storie e un vissuto comune che ha ispirato generazioni di scrittori. Dalle novelle veriste di Verga fino ai contemporanei romanzi di Camilleri, è difficile trovare una regione, una terra, che abbia influenzato così in profondità le riflessioni di tanti suoi figli. Figli che spesso se ne sono allontanati, ma che non hanno smesso di rievocarla nelle loro pagine attraverso le ambientazioni, i ricordi o le contraddizioni.

La contraddizione, un concetto facilmente associabile all’opera e alla vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nato 122 anni fa a Palermo. Un nome così arcaico che sembra appartenere a un’epoca ancor più vecchia di questo secolo abbondante. Erede di un’antica famiglia nobiliare che, nell’Italia unitaria a cavallo dei due secoli, scopriva l’inconsistenza dei casati e del sangue blu. Una decadenza che questo scrittore seppe descrivere compiutamente ne “Il Gattopardo”, la sua opera più importante, se non l’unica. Un romanzo scritto negli ultimi anni della sua vita, forse troppo tardi. Ultimato nel 1956, fu pubblicato nel 1958. Peccato che, nell’anno di mezzo, l’autore fosse approdato a miglior vita, stroncato da un tumore polmonare.

Il Gattopardo rappresenta un caso editoriale incredibile. Scartato per ben due volte, solamente postumo ne è stato riconosciuto il valore, testimoniato dalla pubblicazione e da un successo di critica e pubblico che l’hanno reso una pietra miliare della narrativa novecentesca. Paradosso volle che fu un altro illustre siciliano, Elio Vittorini, a ripudiare l’opera del suo corregionale. Sia per la Mondadori che per i Gettoni, collana della Einaudi. Prolissità, eccesso di descrizioni, poca chiarezza del suo genere, essenzialmente vecchio. Queste le motivazioni addotte al duplice rifiuto.

La prima edizione dell’opera uscita nel 1958

Sicuramente, non aiutò nemmeno il contenuto dell’opera. In un’Italia uscita dalla guerra e dal fascismo, impegnata in un’opera di ricostruzione, anche culturale, della sua identità, le contraddizioni inserite da Tomasi di Lampedusa sarebbero risultate spiazzanti. La sua visione del processo risorgimentale italiano, nel cui periodo è ambientata la vicenda del principe Fabrizio Salina, ne inficiava la validità delle motivazioni e l’efficacia partecipativa di una parte del popolo siciliano. Opportunismo, fatalismo, la convinzione dell’impossibilità di un reale cambiamento, se non di facciata:

“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.

Strutture e facce vecchie e nuove che si mescolano, ma senza modificare la sostanza del contesto, dove le scelte risultano veicolate già prima della loro attuazione e i possibili punti di rottura sono plasmati secondo convenienza. L’ascesa della borghesia intraprendente, dipinta come rozza nel suo arrivismo efficace, che sfrutta comunque la vecchia nobiltà per legittimare la sua ascesa sociale. Il plebiscito per l’unità italiana che annienta le poche voci di dissenso, pregiudicando un auspicato inizio di esercizio delle libertà personali.

Dal libro, fu tratto un film di successo dal regista Luchino Visconti nel 1963

Tomasi di Lampedusa aprì delle crepe, suscitò dibattito e si affermò come autore, seppur non in vita. Ci riuscì grazie alla casa editrice Feltrinelli e all’intuizione di Giorgio Bassani, a cui fu inviato il manoscritto da Elena Croce, figlia di Benedetto, dopo averlo ottenuto da un conoscente del defunto. Per un altro autore che costruì la sua fama grazie a un proficuo e stimolante rapporto con la sua città d’origine, non fu difficile rintracciare in quel manoscritto accantonato una grande novità, un affascinante elemento di cattura che permette a noi, ancora oggi, di ricordare Giuseppe Tomasi di Lampedusa e lo sguardo distaccato e consapevole del principe Salina su una realtà mutante. Ma non così tanto.

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