Quando, il 28 novembre del 2016, il volo LaMia Airlines 2933 si è schiantato a pochi km dall’aeroporto José Maria Cordoba di Medellin, provocando la morte di 71 passeggeri, tra i quali 48 membri della Chapecoense, squadra di calcio brasiliana, si sono consumate tante tragedie contemporaneamente.
Innanzitutto, quella delle vittime. Giocatori, staff tecnico, dirigenti e giornalisti che si stavano recando nella città colombiana per la finale di andata della Copa Sudamericana, il secondo trofeo più importante del Sudamerica dopo la Libertadores. Un appuntamento unico per la storia di una società senza grande tradizione, approdata nel Brasileirao, la Serie A brasiliana, soltanto nel 2014. Un gruppo di giocatori senza stelle al suo interno, ma così coeso da raggiungere un traguardo di grande prestigio. Una squadra che stava vivendo la possibilità della conquista del suo primo trofeo nella maniera migliore possibile, vivendola come un sogno e non come un’ossessione.

La seconda tragedia ha invece riguardato i familiari delle vittime, i loro amici, i conoscenti. Ma, soprattutto, tre dei sei superstiti dell’incidente: Helio Hermilio Zamper Neto, Jakson Ragnar Follmann e Alan Luciano Fuschel. Gli unici tre giocatori di quella Chapecoense che possono ancora prendere in mano un pallone. Sopravvissuti, certo, ma protagonisti di un doppio incubo: quello inconsapevole, durante l’improvvisa caduta dell’aereo, e quello vissuto al momento del risveglio in ospedale, quando hanno dovuto fare i conti con l’atroce realtà dei fatti, con la presa di coscienza più dura di tutte:
“Com’è finita la partita contro l’Atletico Nacional?”.
Sono state queste le prime parole, una volta ripresosi, di Neto. Ma nessuna partita si era giocata e al difensore è bastato guardarsi un attimo attorno per capire la drammaticità del tempo durante il quale era stato senza conoscenza. Bende, gessi, un lettino sul quale era sdraiato immobile. I suoi compagni di viaggio erano quasi tutti morti. Il loro sogno comune di giocare e vincere una finale spezzato come quell’aereo sul quale non era stato messo carburante a sufficienza. Spezzata come anche la gamba destra di Follmann. Per lui, che ora si allena da aspirante nuotatore paralimpico, il calcio è un ricordo doloroso, un tormento che lo accompagna quotidianamente con la protesi che è costretto a portare. La rottura di una vertebra non ha invece impedito a Fuschel di tornare in campo con la stessa maglia e di segnare addirittura un goal a 277 giorni di distanza dallo schianto quasi mortale. Lo ha fatto in Italia, all’Olimpico, in un’amichevole giocata contro la Roma. La bellezza di tornare a vivere un’emozione simile mischiata alla malinconia del pensiero che quel goal sarebbe stato più bello segnarlo nella finale mai disputata.
La terza tragedia l’hanno invece vissuta i sostenitori della Chapecoense, di quel club sconosciuto ai più fino a quel maledetto giorno, ma che per loro era stato l’altro membro di quel bellissimo rapporto mistico che si instaura tra i tifosi e la loro squadra del cuore. Una relazione spesso unidirezionale, che non pretende di essere ricambiata, ma solo alimentata. Perché alla Chapecoense venne poi attribuita la vittoria nella Copa Sudamericana, con il beneplacito degli avversari, ma la cosa ebbe poco valore. Un gesto simbolico, un atto dovuto, forse anche una forma di pietismo che il dolore dei tifosi non ha contribuito ad alleviarlo, anzi. Un trofeo in più nel palmares, seppur il primo, conta poco di fronte la mancanza dell’emozione provata nell’arco dei 180 minuti. Lasciarsi travolgere, nel bene e nel male, dagli eventi imponderabili di una doppia sfida, sarebbe stato uno spettacolo più gratificante di una mesta cerimonia di consegna nel segno della commemorazione.
Eppure, a due anni dal crollo di ogni sogno, la Chapecoense è ancora viva, Nella prossima giornata di campionato, l’ultima, potrebbe salvarsi ancora, per la terza volta di fila. Un nuovo percorso che, del ricordo di quella tragedia, si nutre per alimentare il suo futuro e costruire nuovi sogni.