23 novembre 1991: Freddie Mercury, leggendario frontman dei Queen, annuncia al mondo di essere malato di Aids.
24 novembre 1991: arriva la notizia della morte di Freddie Mercury, a poco più di 24 ore di distanza dal precedente e scioccante annuncio.
Un presagio e un desiderio di verità da offrire ai suoi fan, a quanti si interrogavano sull’identità della malattia che lo aveva prosciugato negli ultimi mesi, rendendolo consunto, quasi irriconoscibile, costretto a comparire sempre meno in pubblico e a interrompere le registrazioni dell’ultimo album portato avanti con la sua band, Innuendo. Un’uscita di scena in punta di piedi, rafforzata dalla successiva cremazione e dallo spargimento delle ceneri, per suo esplicito volere, in un luogo ancora sconosciuto ai più.
Quasi un paradosso per un artista che, oltre alle eccellenti abilità canore, strumentali e compositrici, spiccava innanzitutto per l’energia trasmessa nei concerti, per il suo essere tremendamente performante di fronte al pubblico, suscitando entusiasmi e galvanizzando platee. Il palco, più che lo studio di registrazione, era l’habitat di Freddie Mercury, pseudonimo di Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar nel 1946 e cresciuto facendo la spola, fino al compimento della maggiore età, tra la nativa Tanzania e l’India, il Paese originario dei propri genitori. Un mix di influenze che ha reso Mercury esplosivo, con tante sfumature risaltanti nelle sue canzoni più celebri, da Don’t Stop Me Now a We are the Champions, passando per Bohemian Rhapsody e Somebody to Love. Pezzi di musica inscritti nella storia, così diversi tra loro, ma uniformati da una capacità di interpretazione unica. Freddie Mercury era dinamico, desideroso di creare empatia muovendosi con una grande teatralità ed enfatizzando il proprio linguaggio corporale. La sofferenza degli ultimi mesi della sua vita era sottolineata dalla progressiva debilitazione di un corpo che si andava sfaldando, che perdeva vigore e non era più in grado di supportarlo nella sua volontà di alimentarsi di musica sino alla fine.
Non è un caso che, nell’immaginario collettivo, Freddie Mercury e i Queen siano rimasti impressi soprattutto per la loro performance nel Live Aid del 13 luglio 1985, un grande evento-concerto tenutosi in contemporanea in due diversi luoghi, organizzato per ricavare fondi per la terribile carestia che aveva colpito l’Etiopia. Nello stadio di Wembley, davanti a 72000 persone, la loro esibizione venne unanimemente riconosciuta come la più spettacolare, tanto da spingere l’organizzatore dell’evento, Bob Geldof, a definirli “il più grande gruppo rock del pianeta”. E pensare che quello show, tenuto su entrambe le sponde dell’Atlantico, vide la partecipazione dei migliori artisti di quell’epoca. Tra di loro anche Elton John, che non ebbe dubbi nel dichiarare “Freddie Mercury oggi ha rubato la scena a tutti”.
E proprio con l’esibizione al Live Aid, culmine del processo di evoluzione artistica del gruppo e del cantante, si chiude Bohemian Rhapsody, il titolo del film realizzato sulla vita della band e di Mercury. L’opera, già da un mese nei cinema anglo-americani e destinata alle sale italiane solo dal 29 novembre, si è riproposta di scendere nel dettaglio della vita privata di Freddie, mostrandone anche gli aspetti più discussi e controversi. Un’operazione che non ha trovato l’appoggio di tutti i Paesi d’uscita del film, ma necessaria per cercare di riflettere le varie sfaccettature di una personalità debordante. Così debordante che questo film, pensato già nel 2010, ha visto alternarsi diversi attori e registi prima di arrivare al concepimento finale. Freddie Mercury, morto logorato, ma capace di essere logorante anche a 27 anni dalla sua morte. Succede solo ai più grandi.